SPECIALE “TU CHE ERI OGNI RAGAZZA”

con l’audiodramma “La casa della morte”

Oggi la newsletter di Scrivere di Notte è dedicata a “Tu che eri ogni ragazza” e all’audiodramma de “La casa della morte”, il testo extra che ho scritto per l’edizione speciale. Per leggere tutto lo speciale:

Di seguito per gentile concessione di Wojtek Editore pubblico il testo integrale di “La casa della morte”

LA CASA DELLA MORTE

di Emanuela Cocco

Nella frase recinto, frase che chiude e non evolve, che calca la scena della pagina ferma, rotolando fuori oltre il senso del discorso, estromessa.

Nella storia steccato, dove tutto è accaduto.

Dove la ragazza muore.

Nel fuori campo,

dove continua a morire

per sempre.

La ragazza senza volto, che danza sotto una pioggia di monete.

La ragazza moneta.

La ragazza che è ogni ragazza.

Nella pagina schermo

Dove Jungla si inginocchia

e sviene

dietro una siepe di oleandro,

perché qualcuno le ha forzato la bocca.

Dove lei si inginocchia per sempre.

Dove solleva il braccio,

dove colpisce e soccombe,

dove impara e incenerisce.

Dove sei stato incitato a un gioco meschino e pietoso.

Nella pagina che è stata scritta e tu la conosci.

Perché sei tornato?

«… questa non è la stazione, non tornerò più alla stazione, la stazione è stata dismessa, come ogni cosa, anche la città, anche lei. Chi siete?»

:

:

«Perché sono ancora?»

:

:

«Voglio farlo smettere.»

:

:

«Voglio che finisca.»

:

:

«Ero certo che fosse finita.»

:

:

«che io fossi finito.»

:

:

«Mi sentite?»

VOTATE PIETÀ

LA CASA DELLA MORTE

A Che cos’ha da scalciare?

B – Ha le sue ragioni.

A – Roba passata.

B – Non dovrebbe essere qui.

A– Non siamo stati noi a richiamarlo, è stata la storia.

B – Non c’è nessuna storia, ci sono solo i fatti.

B – Siamo qui, in un certo spazio, per un certo tempo, non abbiamo bisogno di altro.

A – Che ha da sbraitare?

B – Gli serve un finale.

A – Gli spetta?

B – Non spetta a nessuno.

VOTATE PIETÀ

È passato troppo tempo. Ricordo che c’è stata la stazione, i miei tentativi alla stazione. Tentativi di far cosa? Non tentiamo sempre? E a un certo punto l’azione ci si piazza davanti. Cosa sei? Un passo falso, il tentativo di giustificarlo. C’è stata la stazione, sì, i miei tentativi alla stazione. Ma questa non è la stazione, non tornerò più alla stazione, la stazione è stata dismessa, come ogni cosa, anche la città, anche te. Chi siete? Ero certo che fosse finita, che io fossi finito. Invece ci sono dentro, ancora dentro la città, ma non più dentro alla storia. Mi va bene che la storia si compia senza di me. Che la città mi contenga senza mostrarmi, non più. Mi sta bene che nulla possa rendere conto di me come di tutto il resto. Il resto che non mi comprende, che non comprendo. L’inquadratura si allarga, le cose si allontanano, e ingrandiscono. Mi sta bene uscire dai bordi, essere cancellato, come è successo a te. La città si allontana e così i fatti. È trascorso troppo tempo dai fatti e non riesco più a sentirli. Ma i fatti mi guardano, i fatti vogliono dire qualcosa, le loro parole non hanno suono ma hanno senso. Li vedo aprire la bocca ma non riesco a sentirli. Ci sono solo i fatti, ma non riesco a sentirli. Non sono stato capace di risolverli. Non sono stato in grado di risolvermi nei fatti, di trasformarli in una storia conchiusa. Forse sono qui perché la storia è rimasta aperta.

A – Un uomo spia da una finestra l’interno della sua casa. Cerca qualcosa, nascosto tra i piani sovrapposti degli eventi. Di tutte le cose che ha perduto una sola lo tormenta, è il volto di sua figlia. Lo cerca, scrutando ogni angolo, tormentato dal desiderio di riappropriarsene, certo che quando questo avverrà saprà riconoscerlo.

B – Un uomo, fermo davanti a uno specchio rotto, rinuncia a ritrovarvi intera la sua immagine e, senza provare a dargli un ordine, lascia transitare sulla sua superficie irregolare la parte infinitesimale di mondo che gli compete. In un frammento di specchio, trattenuto a stento da una scheggia ancora precariamente ancorata alla cornice, sul punto di cadere, gli pare di intravedere il volto della figlia, un attimo prima che questo cada infrangendosi in tante scaglie cieche ma luminose.

Io e te, insieme, è impossibile che accada. Anche ora è impossibile che accada. Sei nello spazio cieco in cui vivono le cose a cui si reagisce per continuare a vivere, le cose che ci vengono strappate, che fanno la vita.

Sono in questa scena. In questa scena ho una faccia. Viene inquadrata. Guardo oltre. Questa volta. Ancora una volta e poi basta. Se guardo ancora una volta qualcuno, cambierà prospettiva e allora potrò vederti. Non ci credi? Neanche io. Ma sono qui. Le circostanze che lo hanno reso possibile mi sfuggono. Ancora questo imperativo che non viene mai pronunciato: non occorre che tu sia identico a quello che sei stato, devi, invece, essere nuovo, per quanto ti è possibile. Io non so essere nuovo. Non so essere niente. Non avevo intenzione di tornare. Chi mi ha fatto questo?

A – Un uomo cerca il volto della figlia, di cui ha perso memoria. Se non riesce a trovarlo deve essere sua la colpa. Deve averlo nascosto con cura, in qualche angolo remoto di quello spazio affastellato che è la sua vita.

B – Un uomo tiene tra le dita il volto della figlia catturato dall’affilato frammento di uno specchio, che lo deforma. L’uomo usa il frammento per infliggersi una ferita.

A – Il suo volto. Deve averlo congedato in uno di quei momenti di raccordo tra un evento e l’altro, una di quelle soglie infinitesimali che si piazzano tra un dirupo e l’altro per attutire la caduta, uno di quei momenti in cui trattenere o lasciare andare qualcosa fa la differenza tra la vita e la morte. In uno di quei momenti, un uomo ha nascosto dentro di sé il volto della figlia morta. Lo ha fatto per sopravvivere e ora desidera morire per riappropriarsene.

B – Un uomo ha trasformato il volto della figlia in una ferita aperta nella sua carne in cui si specchia di tanto in tanto, per mantenerla in vita.

A – Questi occhi sono stati miei, si dice l’uomo, questi occhi che io ho fatto, questo viso, che era suo e che allo stesso modo mi apparteneva, pensa.

B – Questi occhi, dice, allargando di tanto in tanto la ferita che lo attraversa.

A – Perché, chiede, e come è potuto accadere.

B – Così è stato, sentenzia l’uomo senza proferire parola.

A – Questo volto, o meglio, il desiderio di ritrovarlo.

B – Questo volto affilato come un’arma, che mi taglia.

A – Questo volto che è stato vivo.

B – Questo volto mi uccide.

A – Lo cerca nelle foto in cui la figlia è ritratta.

B – Lo incontra senza riconoscerlo.

A – Qualcosa ha ripulito via la faccia della ragazza anche dai suoi ricordi e quando parla di lei, quando la chiama per nome e tira fuori dalla memoria uno dei tanti fatti di cui è stata composta la sua vita finché è durata, si rende conto di avere tra le mani, nel bel mezzo del racconto, solo una figura in ombra, di spalle, una figura senza una faccia e senza occhi, mai volta dalla sua parte, che non parla e non sorride e che certamente non ricambia il suo sguardo.

B – Cerca di sottrarsi al suo sguardo di vetro.

A – La memoria del suo volto

B – Il volto frantumato si ricompone

A – è andata

B – e lo terrorizza, così

A – un volto amato

B – disseppellito e urlante, che non

A – sotto un cumulo buio.

B – Ne corteggia ogni giorno i lineamenti solo per accorgersi di non poterlo

B – può cacciare dalla sua mente.

A – mai disegnare per intero nella sua mente.

A – Quest’uomo

B – Vuole farlo smettere

A – affacciato a una finestra aperta sulla sua vita scandaglia lo spazio e i piani del ricordo alla ricerca

B – Vuole che finisca

A – di un volto in cui tante volte ha potuto affacciarsi, avendo testimonianza concreta della sua esistenza,

B – Era certo che fosse finita,

A – cosa di cui,

B – che lui fosse finito.

A– ormai, comincia a dubitare.

VOTATE PIETÀ

Questa scena è stata scartata dalla storia, e ora ci sono dentro. La storia è stata dismessa ma sono tornato. I fatti mi contemplano. Sono in questa scena e mi hanno cambiato la faccia, o mi hanno aggiunto una faccia. So di avere una faccia, ora, perché loro la stanno guardando. La mia faccia, prima di loro non c’era. E loro esistevano? Prima di questa scena non avrei potuto saperlo, prima di questa scena non ho avuto una faccia o un nome, neanche tu. Qui dentro non ci siamo io e te, noi non ci siamo mai, insieme, neanche nella storia ci siamo mai stati, se non come una cosa detta, una cosa che non poteva essere vista, neanche da me. Da qualche parte siamo esistiti insieme, nei fatti fuori dalla storia, questo è tutto quello che abbiamo. Vorrei tornarci. Vorrei tornare in quel punto fuori dalla storia dove avevo una faccia, anche tu, una faccia che poteva essere vista da te, dove potevo ancora guardare la tua.

A – Come lo facciamo?

B – Ti dico come la vedo.

A – Sentiamo.

B – Un corpo impalato da un raccordo sull’asse. La macchina da presa in avvicinamento: sbocco di sangue motivato, un rantolo circostanziato.

A – Sta soffrendo?

B – È un corpo scosso dalle convulsioni.

A – Cosa lo tormenta?

B – L’inquadratura.

A – Vai avanti.

B – Un corpo fermo, raggelato, mentre la stanza intorno a lui si muove, un corpo ancorato alla casualità, sfiorato da una cornice che eiacula necessità narrative.

A – Noi dove siamo?

B – Al suo fianco.

A – Continua.

B – Un uomo in piena luce, come un segno, evirato del suo inconscio. Un uomo in piedi, in figura intera. Si muove nello spazio sfiorato da impalpabili, oscurate, operazioni sintattiche.

A – E cosa fa?

B – Guarda.

A – Guarda e basta.

B – Un’ultima scena: lo scarto abolito tra il corpo e il suo desiderio. Un solo fotogramma cieco.

A– E lui cosa fa?

B – Guarda.

A – Guarda e basta.

B – Guarda finché qualcuno ricambia lo sguardo.

A – Facciamolo entrare.

B – Dove?

A – Nel fuori campo.

«Mi sentite?»

VOTATE PIETÀ





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